“L’ospedale di giorno”

La dottoressa Antonella Cacchione mi accoglie con un grande sorriso, uno di quei sorrisi che dagli angoli della bocca trasmette serenità e speranza; mi accompagna nel suo studio, lo studio in cui ogni giorno riceve tantissimi pazienti di età pediatrica, affetti da tumori cerebrali.
Subito noto la parete alle sue spalle: è ricoperta di disegni, un’esplosione di colore che per qualche istante mi fa dimenticare dove mi trovo e mi scrolla via il perché di quel posto.
Il Day Hospital è un luogo particolare, i pazienti lo affollano ogni giorno per consulti, risonanze, chemioterapie, radioterapia ed ogni genere di terapia di supporto o medicazione che non richiede degenza continuativa; un piccolo mondo a sé, il “microcosmo” della neuro-oncologia come l’ha definito la dottoressa Cacchione.
La dottoressa è specialista in onco-ematologia pediatrica e lavora presso l’Ospedale Bambino Gesù dal 2012, occupandosi da sempre di tumori cerebrali.
 I pazienti con lei affrontano una malattia che è un percorso; è suo compito e suo piacere infatti seguirli dal primo giorno di terapia all’ultimo.

– Il lato positivo del Day Hospital – dice- è che i bambini, dopo i trattamenti, tornano a dormire nel loro letto, tornano a casa. Le giornate sono intense e lunghe ma i pazienti le affrontano con maggior grinta perché sanno che poi non dovranno fermarsi qui.- 
Ci sono poi una serie di attività extra che accompagnano e scandiscono la giornata dei piccoli pazienti come la Clown-terapia, la ludoteca, i volontari, i corsi scolastici, la fisioterapia, i colloqui con gli psicologi, tutte attività che aiutano a sopportare meglio il percorso ospedaliero. 
La dottoressa ci spiega che, al momento del nostro incontro, in day hospital ci sono circa 100 – 140 bambini con diverse patologie oncologiche ed in media, giornalmente, 20 di loro hanno un tumore cerebrale in una fascia d’età varia: – ci sono bambini sotto l’anno di vita, così come pazienti oltre i 18 anni, che vengono curati in questo ospedale perché affetti da neoplasie tipiche dell’età pediatria- dice la dottoressa – 
La dottoressa ha a che fare ogni giorno sia con piccoli pazienti che hanno appena iniziato il loro percorso di cura, sia con chi ormai è guarito ed ha combattuto la malattia con coraggio e grinta. – Una cosa che apprezzo molto e trovo estremamente importante – mi dice – è vedere entrare in contatto ex pazienti con bambini attualmente in terapia; questo è un grande stimolo per affrontare la malattia perché i piccoli possono confrontarsi con chi prima di loro ha fronteggiato la malattia.-
Durante tutto il percorso di cura è importantissimo anche il ruolo svolto dalle famiglie, sono il punto di forza di un bambino; bisogna considerare anche il modo in cui loro vivono la malattia del proprio figlio, ecco perché la dottoressa Cacchione ci tiene a sottolineare come il progetto di Heal si ripercuota sul suo lavoro; ha definito la nostra associazione come un “ponte”, un ponte tra la scienza e le famiglie. – Heal non è solamente un aiuto concreto per quanto riguarda la ricerca, è anche un supporto emotivo, ci sostiene a 360 gradi, sotto tutti i punti di vista; non si tratta solamente di accrescere la conoscenza, la possibilità di lavoro e la formazione di medici, biologi ed infermieri permettendo di assistere a convegni, attività di ricerca ed altro; oltre a questo c’è un valore etico/morale che permea l’impegno che l’Associazione ha preso con questo ospedale, un valore che nasce dalle famiglie stesse e passa attraverso noi medici e ricercatori. Il motore del mio lavoro dunque è la ricerca che va sempre avanti. La neuro-oncologia pediatrica sta acquisendo nuovi aspetti e possibilità grazie alle metodiche diagnostiche e terapeutiche di nuova scoperta.-

Come ultime domande per la dottoressa mi riservo quelle più difficili, le domande un po’ spiazzanti, quelle per cui non si ha mai una risposta pronta; guardandola vedo professionalità ed umanità allo stesso tempo e non faccio che chiedermi se sia possibile non portare il lavoro a casa almeno per un giorno, uscire dal reparto, resettare la mente e non pensare almeno per un secondo ad un determinato paziente, ad una terapia o una risonanza. La risposta? Ovviamente no.
– … Non c’è giorno in cui torni a casa senza pensare ai miei pazienti- dice la dottoressa- la cosa che mi salva è il mio camice; il fatto di stare dall’altro lato della scrivania mi permette di non essere troppo succube dei miei sentimenti…di ricordare e utilizzare la professionalità…Una volta feci “l’errore” di andare a casa di un mio paziente… ecco, entrare nel suo mondo, vedere la sua stanza, i suoi giocattoli, la sua quotidianità fu emotivamente troppo per me, scoppiai a piangere.-
Tutto questo mi ha fatto riflettere: c’è forse una possibile linea di confine che divide in questo lavoro il lato emotivo da quello professionale? C’è qualcosa che, anche quando le emozioni sovrastano la razionalità, spinge ad andare avanti sempre? Certo, la gratitudine.
– La cosa che amo di più del mio lavoro, quella che mi rende felice ed appagata di farlo è il sorriso, anche di un solo bambino che ce l’ha fatta, che torna a farmi visita, mi porta un regalo, mi abbraccia, mi racconta la sua vita, che semplicemente mi guarda e mi dice grazie; ecco, questo è il lato più bello del mio lavoro.-
La dottoressa mi sorride, le sue parole sincere e trasparenti mi raccontano tutto senza intermezzi, è rassicurante. Continuo a fissare le pareti alle sue spalle pensando che dietro ogni disegno sul muro, ogni oggetto sulla scrivania c’è il ricordo di un bambino che ha aiutato. – bisogna amarlo profondamente questo lavoro, bisogna amarlo con tutte le proprie forze perché da soddisfazioni inimmaginabili, ti cambia il modo di percepire la vita- dice la dottoressa- sfiorare ogni giorno le estremità della vita e lottare ed onorarla..rende tutto diverso; prendersi cura di questi bambini e sentirsi almeno un po’ utili fa vivere meglio.-
L’ultima domanda che le faccio riguarda una foto, non ho potuto fare a meno di notarla, è bellissima; c’è una luce calda sullo sfondo, la dottoressa ha in braccio una piccola paziente che la stringe forte a sé; si percepisce dai loro sguardi una forte intimità che le unisce, un legame indistruttibile nato proprio lì, in reparto. – Lei è Sofia, ha 9 anni- mi racconta la dottoressa- ha cominciato il suo percorso terapeutico a soli 3 anni e mezzo, ha una storia lunga.
Mi vuole molto bene e si è affezionata a me da subito; ogni volta viene a trovarmi nel mio studio e mi abbraccia, mi annusa, gioca con i miei capelli…è dolcissima.-
Aiutare pazienti come Sofia fa parte della quotidianità per la dottoressa Cacchione, una quotidianità mai scontata che le permette ogni giorno di realizzare se stessa tramite gli altri; è questo in fin dei conti a renderci vivi: la consapevolezza di aver contribuito, seppur in minima parte, alla speranza di chi crede in noi.

Di Ludovica Onorati